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martedì 26 ottobre 2010

Parole o piume?



Le parole non sono brina in un giorno d'inverno.
Un oggetto frantumato non sarà mai più intero.
Potrà essere incollato, traballante o perfetto, ma è rotto.
Rimane e rimarrà, ineluttabilmente, rotto.
Le parole hanno un peso.
Per anni mi hanno convinta che un chilo è un chilo, fosse di ferro o di cotone.
Piume o piombo, le parole hanno un peso, oltre a quello specifico.
Dietro una parola c'è il fiato, la voce, il pensiero.
E i pensieri sono mutevoli, ma fino ad un certo punto.
Sanno anche essere radicati, e una volta che vengono prodotti, si annidano come cimici, sembrano sopiti ma rimangono. Se ci sono stati, ci sono, o potrebbero esserci nuovamente.
Per questo non ci si può fidare di chi rinnega le proprie parole, o i gesti, che è la stessa cosa, e non solo perchè il pensiero è azione.
Ma c'è forse un uomo peggiore di chi oltrepassa le proprie sillabe come si fa con una macchia sul marciapiede?
Lì c'è qualcosa di tuo, è come se ti fosse caduto un orecchino. Piegati, e raccoglilo. é tuo, l'hai voluto.
Non puoi fingere di non vederlo, fingere che non ci sia, e andare avanti, verso chi hai offeso, come se niente fosse.
Chi ignora le proprie parole, ripudia i propri figli.
Chi le attraversa, e non le oltrepassa, può cambiare idea. Pentirsi, chiedere scusa, ricominciare.
Ma come puoi pretendere che suoni una sinfonia di Beethoven chi non sa nemmeno solfeggiare?


martedì 31 agosto 2010

Con il cuore in valigia




Sulla moquette del corridoio i miei passi non fanno rumore, mentre gli altri passeggeri formicolano ai loro posti, inquieti.
Aereo mezzo vuoto, cerco un posto in cui posso stare comoda, senza che le mie gambe a cavallo flirtino involontariamente con qualche altro e che i miei gomiti si trovino costretti ad essere più educati del dovuto, a contatto di un estraneo possibilmente sfacciato che colonializzerebbe il bracciolo, senza averne alcun diritto, se non il medesimo che potrei avanzare io ma che reprimo, per l'appunto, visto che sono più educata.
Il che mi farebbe riflettere sul fatto che forse la civiltà risiede proprio, nell'oppressione, anzi, nell'auto-rinuncia al desiderio di (onni)potenza, siamo tutti castrati in pratica, e dunque ripenso a quel geniaccio di Freud mai abbastanza compreso e ringraziato che invece aveva proprio capito tutto.
Ad essere sincera non saprei se loro c'erano già, o si siano seduti dopo di me, ma forse no.
Mi siedo, giornale-munita, e inserisco una bottiglietta d'acqua (suppongo termale e preziosa, dato che l'ho pagata un rene, al terminal) nella tasca del sedile davanti, dove immagino debbano trovarsi i sacchetti "utili ad ogni vostra esigenza" ma non controllo mai per scaramanzia.
Lo so che ne ho scelto uno stupido, ma mi serviva un gesto scaramantico per rimpiazzarne uno dismesso, da quando un'hostess mi ha vista tastare, quasi a quattro piedi, tutti e tre le basi dei sedili di fronte a me, e mi ha detto di stare tranquilla perchè i salvagenti, in caso di bisogno, spuntano dall'alto, come deus ex machina (metafora classica per sorvolare sul fatto che hanno escogitato il sistema dato che le persone se li rubavano.)
Piccola nevrosi pre-partenza: controllo i telefoni, già spenti. Non sia mai che succeda qualcosa per causa mia, sono sicura che un fato malvagio farebbe sì che io sopravviva a tutti gli altri per essere rosa dal senso di colpa e dall'odio verso le interviste a cui dovrei fornire le risposte, anzichè le domande. Immagino mentalmente un'auto-intervista alla sopravvissuta colpevole, poco dopo accantono le idiozie e guardo di fronte a me, dove tra i due sedili vedo una ragazza con gli occhi a mandorla e il viso levigato, ambrato, perfetto sul maglioncino di cotone neutro.
Accanto a lei, un ragazzo occidentale, con gli occhiali, ogni tanto si sfiorano.
Sembrano due farfalle, quando nelle giornate di sole giocano, rincorrono e volano attaccate e sembrano fare le capriole per mano e disegnano onde contro il verde del prato pennellato.
Non sono riuscita a capire in che lingua si parlavano, o forse non si parlavano affatto, non lo so.
Mentre le luci compaiono dalle nuvole e ho dentro un senso di immensità, di gioia che cresce, la ragazza non riesce a stare ferma, si sporge aggraziata verso il finestrino, tiene in mano una brochure, lui sembra un papà, che sorride morbido alla bambina impaziente.
Guardo lo schermo, alla voce "feet" le cifre scalano, stiamo per atterrare, la ragazza in un brusìo si risiede, e si stringe al ragazzo, mentre lui è voltato verso disegni aerei assai più famigliari, lei gli accarezza i capellli corti della nuca, scomponendoglieli involontariamente appena, poi, delicatissima, con le dita piccole e sottili, glieli riassetta, piano piano, come si spolvera un oggetto preziosissimo, come si tiene in mano il cuore di qualcuno.
Sembrava che brillasse anche lei, come una lucciola venuta da lontano, tra le luci sempre più vicine.

lunedì 30 agosto 2010

Domanda...

Vi piacerebbe
ascoltare il racconto
                  di quello che poteva accadere
         
                  e non è successo?